"PAURA DELLA PAURA"
NON ESISTE NOTTE CHE NON VEDA IL GIORNO
Il panico inteso come disturbo psicologico è una categoria diagnostica moderna, seppure la caratteristica reazione come risposta a condizioni di minaccia estrema, ovvero il definito “timor panico”, sia la più arcaica delle emozioni. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), nel 2000, ha definito il disturbo da panico come la più importante patologia esistente, colpendo il 20% della popolazione.
Mentre, da un punto di vista operativo, risulta che non è l’ansia a scatenare la paura, ma è la paura ad innescare la reazione fisiologica dell’ansia, la quale acuisce sempre più con l’elevarsi della percezione di minaccia individuale, trasformandosi così da funzionale meccanismo di attivazione a perdita di controllo. Seguendo tale logica, se l’attivarsi dell’ansia è un effetto della percezione di stimoli interni o esterni all’organismo, le vie privilegiate di cura divengono la gestione e la trasformazione delle percezioni che attivano le reazioni del soggetto nei momenti di crisi, mentre la classificazione degli attacchi di panico tra i disturbi d’ansia porta a una distorsione dell’osservazione e della valutazione del disturbo, indicando come soluzione più adeguata la terapia farmacologica inibitoria dell’ansia stessa. lo stato di allarme è costante, con un innalzamento dei parametri fisiologici, che non giungono però al tilt.
Durante un attacco di panico, la persona è terrorizzata dalle sue stesse sensazioni di paura nei confronti dello stimolo minaccioso che tenterà di combattere, come vedremo, in questo modo aumentandole; l’effetto dunque si trasforma in causa. Il cambiamento terapeutico potrà avvenire soltanto all’interno della dinamica presente di persistenza del problema, quindi agendo sul modo in cui l’individuo percepisce gli stimoli minacciosi e, reagendo ad essi, invece di gestirli funzionalmente, ne viene travolto. Il focus dello studio è l’interazione dell’organismo con la sua realtà, alla quale risponde modificandola e venendone modificato. Il panico viene da più parti definito come la forma più estrema della paura che, se al di sotto di una certa soglia rappresenta una risorsa che consente di allertare l’organismo di fronte a situazioni pericolose, al di sopra di questo limite diviene patologica. Diverse sono le situazioni nelle quali il brivido della paura avvolge nelle sue spire la persona, ma analoga è la struttura di funzionamento del circolo vizioso che crea e mantiene la paura stessa, fino a farla divenire panico.
Analizzando le reazioni più usuali a una percezione di intensa paura, si osservano infatti alcune costanti ridondanze nelle diverse persone e situazioni:
a) Il tentativo di evitare o rifuggire ciò che spaventa, che fa sentire sempre meno capaci di fronteggiare quel mostro che assume delle proporzioni sempre più gigantesche nella mente di chi ha paura
b) la ricerca di aiuto e protezione, che lì per lì fa sentire salvi, ma poi, se anche riusciamo, sarà solo un tampone che avrà effetto fino alla prossima volta.
Questo in quanto si realizza una sorta di delega all’altro nell’affrontare la paura che, essendo una percezione individuale, può essere esorcizzata solo e soltanto da chi la sente;
c) il tentativo fallimentare di tenere sotto controllo le proprie reazioni fisiologiche, che fa paradossalmente perdere il controllo, per cui ci si agita ancora di più.
La reiterazione nel tempo di questo tipo di interazione incrementa la percezione della paura conducendo a un’esasperazione dei parametri fisiologici che si attivano naturalmente in presenza di stimoli minacciosi, sino all’esplosione del panico. Se si riesce, al contrario, a interrompere tali interazioni disfunzionali, la paura rientra nei limiti della funzionalità. Quest’ultima affermazione è stata proprio l’ipotesi dalla quale Giorgio Nardone e collaboratori, hanno mosso i primi passi per la messa a punto di specifici protocolli di intervento: se l’evitamento, la richiesta di aiuto e il tentativo di controllo fallimentare sono davvero ciò che trasforma una reazione di paura in panico, allora far sì che una persona sofferente per questo disturbo interrompa tali copioni di risposta dovrebbe condurre all’estinzione del disturbo stesso.
I pazienti si liberano dell’invalidante disturbo nel giro di 3-6 mesi e che tali risultati, come dimostrano le misurazioni di follow-up dopo la fine delle terapie, si mantengono nel tempo in assenza di ricadute e spostamenti del sintomo. Questo grazie all’applicazione di una logica isomorfa a quella della persistenza del problema, quindi non-ordinaria, e a una forma di comunicazione suggestivopersuasiva. La paura, dunque, se sospinta, invece che rifuggita o repressa, si satura nei suoi stessi eccessi (Nardone, 2016), divenendo la dimostrazione più evidente del fatto che ”Non esiste notte che non veda il giorno” (Nardone, 2003)